In cima al monte Aserei, al centro della provincia di Piacenza sul crinale tra il torrente Nure e il fiume Trebbia, la stagione estiva volgeva al termine e iniziava a dare i primi segni di un repentino cambiamento climatico. Grandi nuvoloni scuri si addensavano nel cielo e la vasta abetaia che spicca sulla cima del monte era scossa da impetuose folate di vento. Queste correvano tra i rami degli abeti provocando un concerto di fischi e scricchiolii che avrebbero spaventato il più temerario dei viandanti. Ben presto arrivò la pioggia. Iniziò a cadere copiosa sui pascoli che d’estate si popolano di gigli, cardi e genziane e sui fitti noccioleti che inesorabilmente stanno via via ricoprendo le pendici del monte. In cima, però, nel sottobosco dell’abetaia, in un punto tra i più inaccessibili, ecco che, tra un mulinello di vento e l’altro, spuntarono due grandi orecchie collegate a un volto rugoso e barbuto. Si trattava dell’Auriseth, il folletto che adora ascoltare le persone che hanno molto da raccontare e che conserva tutti i loro racconti al fondo dei suoi condotti auricolari profondi e bui. Egli sapeva che i grandi cambiamenti di stagione sono momenti particolarmente propizi in cui gli esseri umani amano raccontare, tirare le somme e volgersi verso il futuro. Perciò, accompagnato dal vento e incurante della pioggia, uscito dalla grande abetaia, scese saltellando e ruzzolando attraverso i pascoli e raggiunse il paese di Mareto. Non prima, però, di aver attorcigliato qualche treccia alle criniere dei cavalli bardigiani che pascolavano nei prati dell’Aserei. Sapeva che i folletti della valle, da che mondo è mondo, si dilettano in questo genere di dispetti. Non era nel suo temperamento l’esser dispettoso, al contrario dei suoi colleghi, ma per una volta volle provare l’effetto che faceva un bel dispetto e, infatti, ne fu subito deluso. Pensò che sarebbe stato molto più interessante andare a cercare qualcuno in paese che avesse qualche bella storia da raccontare e una vita piena di lavoro e d’avventure.

Arrivò dunque di fronte all’ingresso del Bar Chiappelloni di Mareto. In men che non si dica entrò per cercare riparo dalla pioggia e sgattaiolò sotto al bancone con una velocità tale che gli avventori  fecero in tempo ad avvertire solo una leggera brezza, naturalmente attribuita alla pioggia, senza nemmeno immaginare che stava per accadere qualcosa di soprannaturale. L’Auriseth raggiunse la piccola cucina accanto alla grande sala e subito notò un’esile figura di donna su un divanetto addossato alla parete che schiacciava il sonnellino del dopo pranzo. Anche all’Auriseth quel giaciglio sembrò particolarmente confortevole e dunque si sedette accanto alla signora Emilia Rossi che subito avvertì il peso del nuovo arrivato sul suo letto di fortuna. La donna si svegliò, accesse la luce e si trovò di fronte allo strano essere il quale subito dispiegò le sue grandi orecchie a mò di saluto. La signora Emilia si chiese se, forse, stesse ancora sognando, ma non si spaventò e, anzi, rivolse all’Auriseth una battuta: “Mi vuoi forse metter in prigione?”, gli disse scoppiando in una fragorosa risata. Egli, per tutta risposta, fece un gran sorriso. Pochi istanti e sembrò che i due si conoscessero già da molto tempo. Sarà che l’Auriseth porta con sé tutte le storie più antiche della valle e dunque emana da subito un’aria famigliare o sarà che dalle sue grandi orecchie esali qualche strana malìa, fattostà, che alla signora Emilia, venne subito una gran voglia di raccontare. Ella si riassettò il grembiule e prese la parola: 

Ho 92 anni ma ho ancora una buona memoria sai? Questo bar è nato come dopolavoro negli anni 40 quando a gestirlo c’era Carlo Garilli che tutti chiamavano con il soprannome di Ciali. Negli anni 60 è stato preso in gestione dai fratelli Chiappelloni, uno dei quali, Antonio, era mio marito. Vedi quante cose mi ricordo? Ora il bar è gestito anche da mia figlia Maria Giuseppina. Mio marito era un gran lavoratore che, oltre ad occuparsi dell’osteria e della lavorazione dei salumi, faceva il “mena latte”. Sai cos’è il “mena latte”? è una persona che con un camioncino passava in tutte le stalle, prelevava il latte e lo portava al caseificio. Faceva ben 40 fermate. Questo ti fa capire quante stalle c’erano allora. Adesso, per rendere l’idea, a Cogno San bassano c’è una sola stalla…e basta. Purtroppo ebbe un grave incidente con il trattore e perse una gamba comunque è andato avanti a lavorare anche con queste limitazioni.
Prima di tutto questo però, c’è stata la mia infanzia. Da bambini giocavamo nei prati a rincorrerci. Qualcuno faceva il lupo o la volpe e inseguiva gli altri che facevano le pecore oppure le galline. E poi c’erano le feste di paese. Da noi si festeggiava San Bartolomeo il 24 di Agosto e in via eccezionale andavamo a raccogliere le patate prima di settembre per fare una torta in occasione di questa festa. C’era poi la festa di San Martino l’11 novembre, la Madonna di Caravaggio il 26 Maggio e il “Cantamaggio” che si svolge la notte del 30 aprile. Quando ero bambina per festeggiare il “Cantamaggio” i giovani restavano in giro tutta notte e anche il giorno dopo. Andavano di casa in casa e chiedevano le uova al padrone di casa. Se lui gli dava le uova loro ringraziavano cantando: “Viva la chioccia crepa la volpe”; oppure: “Viva la volpe crepa la chioccia” se non ricevevano nulla. Poi, il giorno dopo, prendevano tutte le uova che gli avevano regalato e facevano una bella frittata. In questi ultimi anni i giovani si sono messi ancora a festeggiare il “Cantamaggio” andando di casa in casa proprio come allora.

Da bambini, poi, andavamo sui monti a portare le mucche al pascolo e tornavamo giù in giornata. Al mattino mungevamo le mucche prima di partire e alla sera le mungevano una volta tornati. Le portavamo al fontanone, una grande fontana che si trova andando verso il monte Aserei e poi proseguivamo salendo fino ai pascoli. Allora i pascoli erano bellissimi ed eravamo tutti contenti, anche se, naturalmente, il lavoro era molto duro. In particolare ricordo che c’era un luogo molto bello dove portavamo le mucche a pascolare. Si chiamava “Ü lag dü Bro”, “Il lago del Bro”. Non era un vero e proprio lago, anche se un pò d’acqua c’era ancora. Era un bel posto dove fermarsi a lasciare le mucche al pascolo perché c’era una piccola altura sulla quale, se volevi, potevi riposarti un pò e vedere il panorama di tutta valle. Poco distante, proseguendo per un sentiero verso la cima, trovavi delle pietre che forse si trovano tutt’ora, e che chiamavamo “il castlon”, “il castellone”, perché la leggenda diceva che erano i resti di un castello appartenuto alla famiglia Nicelli, una famiglia storica molto potente nella valle, ma nessuno sa se sia vero. Poi, non distante dal “Lag dü Bro”, c’era la “fontana dü fö”, la “fontana del faggio”, da cui sgorgava un’acqua freschissima. Infine, accanto a quest’ultima, c’era il “pian dei bö”, il “piano dei buoi”, dove si andava a ballare. Io non amavo ballare, non ci tenevo, non mi piaceva, invece a mia mamma, a mio papà e a mia sorella piaceva molto. Tanto che mia mamma, scherzando, diceva sempre: “Chi non è capace di ballare, non è neanche svelto a lavorare”. Sino alla seconda guerra mondiale e anche subito dopo arrivavano persino da Peli e da Pradovera per andare a ballare al “piano dei buoi”. Ricordo che una volta il prete aveva addirittura chiamato i carabinieri per impedire che si ballasse. All’epoca, per alcuni, era considerato peccato. 

Quando è arrivata la guerra ne abbiamo passate tante a causa dei tedeschi e soprattutto dei mongoli. Una volta, ero ragazzina, avrò avuto 13 o 14 anni, ero in casa e all’improvviso sopra al paese ci fu una grande esplosione. Poco dopo i mongoli sono arrivati ed hanno iniziato a fare razzia di tutto ciò che avevamo: mucche, pecore, galline. Hanno portato via tutto. I nostri uomini sono scappati nei boschi perché altrimenti sarebbero stati uccisi mentre le donne e noi ragazze del paese siamo andate tutte a rifugiarci dai miei futuri suoceri, i genitori di quello che sarebbe diventato mio marito, perché erano degli anziani molto rispettati in paese. I mongoli sono rimasti otto giorni in cui hanno rubato tutto ma per fortuna ci hanno rispettate perché eravamo protette dai nostri anziani. Altrimenti avremmo fatto una brutta fine. 

Nel dopoguerra, intorno al 1950/55, è arrivato un maggior benessere soprattutto grazie all’apertura del caseificio da parte dell’università di Agraria e poi lo ha rilevato un certo Tavella di Cremona. Poi il caseificio è fallito ed ha chiuso intorno al 1986 ma negli anni in cui ha funzionato ha permesso a molte famiglie di costruirsi le case. Tutti hanno acquistato il trattore che fino ad allora nessuno aveva. Perciò nelle famiglie qualche membro stava a casa con le mucche e qualcun altro andava a fare la stagione lontano da casa a tagliare la legna oppure anche a far la stagione con le mondine proprio come ha fatto mia mamma. E così…”la vita la vegna”, come diciamo noi, “la vita passa”.

Vuoi che ti racconti un segreto? vuoi sapere come capire se il forno ha la temperatura giusta per fare il pane? te lo racconto io che ho iniziato a fare il pane a 13 anni e adesso ne ho 92 e lo faccio ancora esattamente come una volta. Allora, per capire se la temperatura del forno è quella giusta devi prendere una pagina del quotidiano di Piacenza “Libertà” e metterla sulla paletta. Poi metti la paletta nel forno. Se non cambia colore non va bene, vuol dire che il forno è troppo freddo. Anche se si annerisce subito non va bene, il forno è troppo caldo. Allora togli la paletta puliscila con un panno umido e riprova finché non vedi la pagina della “Libertà” diventare rosa. Solo quando è rosa il forno ha la temperatura giusta e puoi mettere a cuocere il pane.
Bene, lo vedi che ho una buona memoria? ma, ora che ti ho raccontato tutto, mi metti forse in prigione?”. Scherzò di nuovo Emilia e i due si sorrisero ancora. La pioggia aveva smesso di scrosciare e un timido sole di fine estate iniziava a far capolino nel cielo sopra Mareto. Bastò che Emilia si voltasse per riassettare il suo giaciglio che l’Auriseth in un attimo sparì. Quando la donna si voltò egli non c’era già più. Forse era sgattaiolato dalla porta semi aperta della piccola cucina, aveva risalito il paese verso la chiesa ed era tornato sui sentieri tra i noccioli che portano in cima al monte Aserei nascosto nei meandri della grande pineta. Emilia si chiese se l’essere incontrato fosse stato reale o invece frutto dei suoi sogni pomeridiani ma senza farsi troppe domande tornò presto al lavoro nel suo bar.

Da qualche parte, su per le montagne, nei prati bagnati o nel folto della abetaia l’Auriseth pensò che, quel pomeriggio, si era accaparrato proprio un gran bottino. Aveva ascoltato di pascoli e antichi luoghi ormai dimenticati, vicende di guerra e trucchi per far cuocere il pane al punto giusto e si riteneva perciò molto fortunato. Calò la sera, il mal tempo cessò definitivamente, solo un ultimo mulinello di vento scese dalle cime e fece sparire l’Auriseth nel nulla con un fischio continuo e sottile. In breve i monti vennero avvolti dal manto scuro della notte e gli uccelli notturni iniziarono il loro canto. Lentamente tutto si acquietò. 

 

 

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