In val Nure, tra i monti che si trovano giusto sopra la piccola frazione di Farini chiamata Vigonzano, nell’Appennino piacentino, esiste un intreccio di gallerie abbandonate di una vecchia miniera. Si tratta di percorsi sotterranei in parte andati perduti in cui ormai nessun’anima viva da decenni mette piede. Ebbene, nel buio di una di queste gallerie, in un tardo pomeriggio settembrino, si generò un forte ululato sordo e prolungato. Si trattava di un turbine di vento, che, impossibile a credersi, parve nascere proprio dal buio delle profondità dei monti. Percorse le lunghe e oscure gallerie ed infine fuoriuscì dall’ingresso di una di esse con un gran frastuono. Discese il monte e raggiunse il paese sbattendo con tutta la sua forza su di un muro di una casa. Non una casa qualunque a ben guardare, perché, su quel muro, si trovava una macchia scura decisamente curiosa. Infatti, negli anni, non si sa per quale strana magia, un ciliegio poco distante dalla parete aveva impresso nell’intonaco tutta la sua sagoma in forma di ombra scura. C’è chi assicura che, un tempo, si potessero addirittura contare i rami impressi in quell’ombra, verificando poi che questi corrispondessero proprio al numero di rami dell’albero poco distante.

 

 

Il caso volle che il signor Andrea Sartori, un uomo alto e dai capelli bianchi come la neve, abitasse proprio di fronte alla pianta di ciliegio. Quel giorno i suoi cani, spaventati dal gran ululare del vento, iniziarono ad abbaiare a più non posso. Di solito questo accadeva quando un forestiero era entrato in paese o quando qualche animale selvatico tentava un’incursione in un pollaio tra le case e dunque il signor Andrea si affacciò sull’uscio per osservare la via ma non gli parve di notare nulla di strano. Nonostante questo, quando si voltò per rientrare nell’abitazione, gettando un’occhiata sfuggente all’ombra dell’albero impressa nell’intonaco, gli parve di notare qualcosa di nuovo e di molto curioso. Lui quell’ombra la conosceva molto bene. Proprio lui aveva messo a dimora la pianta molti anni prima e dunque, nel tempo, aveva visto il profilo di quell’ombra misteriosa modellarsi lentamente traccia dopo traccia, velatura dopo velatura. Ogni giorno che trascorreva, da quella che era una semplice macchia scura, egli aveva visto profilarsi: rami, tronco e chioma. Perciò, quello strano fenomeno era ormai una presenza amica a cui non prestava più grande attenzione. Ma, ad un tratto, vide che quell’ombra scura, come sospinta dal grande vento, iniziò ad aggrovigliarsi in strane circonvoluzioni. I neri rami si intrecciarono tra loro diventando un insieme di indecifrabili tracce scure sino a che, al signor Andrea, parve che qualcosa iniziasse a fare capolino da quello strano intrico. Strizzò gli occhi per esser sicuro di non sognare e quando li riaprì vide apparire il volto dell’Auriseth, il folletto dalle grandi orecchie. L’uomo fece un passo indietro, poiché, in un primo momento, ebbe un certo timore ma, l’Auristeth, fecendosi via via sempre più distinguibile, accennò un largo sorriso e i suoi occhi, che, di fatto, non esistevano ma erano solo due grandi rughe d’espressione, si inclinarono quasi ad assumere le fattezze di un sapiente orientale. Poi con una leggera vibrazione scosse i grandi padiglioni auricolari ed allora, il signor Andrea, forse preso da quegli incantesimi che solo i folletti sanno operare, sentì che non c’era nulla da temere. L’Auriseth, infatti, al contrario di altri folletti che talvolta sanno esser dispettosi giunse, come d’abitudine, solo ed unicamente per ascoltare.

Sei tu che hai fatto abbiare i miei cani?”, chiese il signor Andrea all’essere misterioso. Egli non rispose; lentamente avanzò verso di lui e non si potè dire se strisciasse, volasse o si muovesse su gambe vere. Poi si sedette sulla panca che l’uomo aveva posizionato da anni fuori dall’uscio di casa e, a quel punto, al signor Andrea venne una gran voglia di accomodarsi di fianco al suo curioso visitatore e, semplicemente, di raccontare portando alla luce i ricordi che ancora gli abitavano mente e cuore. Così, cominciò:
Questa non è altro che una piccola frazione, un piccolo gruppo di case, ma le sue memorie arrivano da lontano. In passato, Vigonzano era divisa in ben tre quartieri che portavano i nomi dei proprietari delle case: Freschi, Veneziani e Morisi. Di Veneziani oggi non ne è rimasto nessuno. I Morisi, invece, avevano una storia molto particolare. Venivano chiamati in dialetto i “siür”, i “signori”, dato che erano una famiglia molto ricca. Nessuno di noi abitanti attuali ha conosciuto i “siür”. Si parla di ricordi lontani che arrivano, forse, dalla fine dell’800. Avevano una grande casa nella parte alta del paese vicino ad una fontana che esiste ancora. Si diceva che avessero realizzato un sentiero completamente nascosto da una siepe e che, questa siepe, formasse una vera e propria galleria di modo che i “siür” potessero scappare senza essere visti. Si diceva anche che i signori di Guglieri, una frazione poco distante da qui andando verso Farini, avessero realizzato anche loro un sentiero uguale e, così, le due famiglie di “siür” Morisi e i “siür” Guglieri, si potevano incontrare lontano da occhi indiscreti e senza correre rischi perché erano ricchi e, come spesso accade, prepotenti e dunque poteva accadere che qualcuno volesse vendicare qualche sopruso. Chissà, magari si tratta solo di una leggenda ma i segni di questo sentiero nascosto si possono ancora vedere salendo nei prati sopra la fontana. 

 

 

Bene, questi erano i ricordi lontani, mentre ora ti parlerò di me: nella vita ho sempre commerciato legname muovendomi spesso anche in altre regioni ma sono nato proprio qui, in questo paese, nel 1942. Dunque avevo solo due anni quando è finita la seconda guerra mondiale. Uno dei primi ricordi che ho della mia infanzia è il silenzio e anche la disperazione. Perché successe che in casa mia sparì una persona; uccisero un mio cugino. Si chiamava Andrea proprio come me, aveva 28 anni ed aveva già fatto cinque o sei anni di militare. Poco dopo il suo ritorno a casa nella valle iniziò a girare la voce che i tedeschi si trovavano a Coli, in Val Trebbia, ma non si sapeva con certezza se fosse vero. Tutti erano in sospetto, c’era grande tensione. Se fosse stato vero bisognava nascondersi nei boschi e naturalmente farlo in fretta. Passarono i giorni ma di questi tedeschi non si vide nemmeno l’ombra. Allora, mio cugino e un suo amico dissero: “Andiamo un pò a vedere se questi tedeschi ci sono davvero oppure no” e andarono sul Monte di Mareto, la frazione che si trova poco più sopra lungo la strada. Ebbene, si trovarono nel mezzo di un’imboscata. I tedeschi c’erano eccome! L’amico riuscì a scappare ma purtroppo mio cugino Andrea venne catturato. Lo fecero passare nel paese di Nicelli dove lui aveva la fidanzata, poi lo portarono fuori dal paese e con una fucilata in testa lo ammazzarono. Per ricordarlo abbiamo messo una targa dove perse la vita. Si trova prima di entrare in Nicelli, sulla destra, cento metri prima di arrivare in paese. Questo fatto di mio cugino segnò la mia famiglia e la sua mancanza è pesata molto negli anni a venire.
Come tutte le cose della vita poi finì anche la guerra e qui a Vigonzano esplose il lavoro nelle miniere dove veniva estratta la calcopirite che è un minerale. Iniziarono a fare i primi saggi di scavo nel 1907 e poi la miniera è stata attiva dal 1948 al 1970. Oggi pare incredibile a raccontarlo, ma, subito dopo la guerra in paese c’erano 27 ragazzi dai 18 ai 25 anni e, dal 1955 al 1965 circa, dentro e fuori la miniera lavoravano 180 persone tra Vigonzano e Farini presso la fabbrica dove portavano il minerale. I minatori uscivano dalle gallerie e non li riconoscevi più talmente erano neri. Molti anche si ammalarono. Venivano da un pò dappertutto: Vigonzano, Cogno San Savino, Mareto. Infatti, in quel periodo c’era una trattoria in paese che è rimasta aperta fino agli anni 80, puoi imaginare quanto lavorava! E, fino agli anni 50, c’era anche una bella sala da ballo dove ballavano tutte le sere. Venivano a piedi dai paesi vicini attraversando i boschi, da: Centenaro, Mareto, Groppallo, Pradovera. Il 4 Dicembre si festeggiava Santa Barbara che era la protettrice dei minatori e allora c’era una grande festa alla sala da ballo ed anche all’osteria. Poi via via con la chiusura delle miniere ha iniziato ad esserci sempre meno gente e ormai si può dire che siamo in quattro gatti.
Se penso alla mia infanzia, però, non mi lamento, è stata felice, anche se naturalmente c’era povertà, ma noi ci divertivamo con quello che c’era. Per esempio giocavamo ad un gioco che chiamavamo la “porca”. Non mi chiedere il perché di questo nome. Ricordo che funzionava così: si facevano quattro buchi nel terreno a formare un quadrato e poi un buco al centro. Si prendeva un barattolo di latta, quelli della conserva andavano benissimo, e si accartocciava sino a farne una palla. Una roba che se ti colpiva in testa te la spaccava in due. Poi ci si preparava in sei giocatori, ognuno con un bastone si andava a mettere vicino ad una delle buche escluso il sesto giocatore che andava fuori dal quadrato e teneva la palla. Il suo obiettivo era quello di infilare la palla in una delle buche, mentre gli altri giocatori cercavano di impedirlo difendendo la propria postazione. Se il giocatore riusciva a conquistare una buca allora colui al quale era stata rubata doveva andare fuori e il gioco riprendeva daccapo. Vinceva chi conquistava la buca centrale. Perché lo chiamassimo “porca” proprio non lo so”.

Sorrise il signor Andrea e l’Auriseth, dopo aver scosso le sue grandi orecchie, lo ricambiò. Ormai solo una leggera brezza rimaneva del vento impetuoso iniziale. I cani del signor Andrea avevano smesso di abbaiare già da un pò. Si vede che anche loro si erano abituati a quella inconsueta presenza amichevole. Poi di nuovo la brezza prese leggermente più forza. La sera si avvicinava e il signor Andrea capì che era il momento di rientrare. Guardò di fronte a sé l’ombra scura del ciliegio impressa nel muro. Questa volta nulla si mosse, ma quando si voltò di nuovo a guardare il suo interlocutore non lo vide più. Sparito. Proprio non riuscì a capire se si fosse infilato in quell’ombra che aveva di fronte o se la flebile ripresa del vento lo avesse accompagnato fin sui monti nel buio delle gallerie abbandonate della vecchia miniera. Il signor Andrea però era contento. Non capitava spesso di veder arrivare ospiti così curiosi dalle parti di Vigonzano. “Certo, può essere stato tutto un sogno” pensò rientrando in casa. Fatto sta, che, da quel giorno, non guardò più l’ombra del suo ciliegio allo stesso modo.

 

 

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