Tra i faggi secolari del monte Santa Franca, in provincia di Piacenza a cavallo tra la val d’Arda e la val Nure, le foglie novembrine, da qualche settimana già cadute a terra a causa dell’avvicinarsi dell’inverno, iniziarono le loro danze svolazzando le une attorno alle altre sospinte dal primo vento mattutino. Investite da una folata di vento particolarmente decisa alcune di queste vennero spinte verso l’alto e arrivarono quindi a lambire le cime dei grandi faggi. Da lì si diressero poi verso la frazione di Guselli e, nel tragitto, non mancarono di raccogliere altre compagne che lentamente fecero apparire l’insieme di foglie come uno stormo di qualche specie migratice di volatile, oppure come uno sciame brulicante di insetti ancora sconosciuti. Fatto sta che il nugolo di foglie rutilanti, in breve raggiunse la una piccola frazione di Morfasso che si affaccia sullo splendido panorama della val Tolla chiamata Tiramani. Le foglie sembrarono divertirsi a sfiorare i muri delle tante case in sasso e a passare poi nei fori di alcune colombaie collocate appena sotto i tetti. Al quel punto, chiunque avrebbe potuto concludere che non fosse più il forte vento a determinare quello strano spostamento di fogliame ma, bensì, che quella massa vorticosa avesse vita propria scegliendo di andare ora di qua e ora di là come le dettava il capriccio del momento. Tant’è che, d’un tratto, il fogliame raggiunse l’oratorio di Tiramani sormontato dalla sua bella campana. Una volta giunte in prossimità di essa le foglie si avvicinarono ancora di più tra loro sino a formare un vero e primo ammasso denso e scuro. Ed ecco che, quelle che sino ad un attimo prima erano semplicemente foglie, rivelarono il volto sorridente e rugoso dell’Auriseth, il folletto dalle grandi orecchie che adora ascoltare le storie dei paesani. Non si fece in tempo a distinguerne del tutto i lineamenti che l’Auriseth diede un forte colpo alla campana provocando un sonoro: “Din don” che attraversò tutto il paese.
Il caso volle che il signor Andrea Losi, un uomo energico e distinto gran conoscitore delle storie della valle, quel giorno si trovasse a soggiornare proprio nella sua casa di Tiramani. È facile spiegare dunque perché il nostro Auriseth, nascosto in quel turbine di vento e foglie, avesse fatto tanta strada. Sapeva evidentemente che quel giorno c’era nei paraggi qualcuno che aveva molto da raccontare e non voleva lasciarsi scappare l’occasione.
Sorpreso dall’inaspettato suono della campana il signor Losi uscì di casa e raggiunse l’oratorio. Si guardò attorno insospettito e poi si domandò: “Chi suona? Oggi che non è prevista nessuna funzione”. Poi si voltò verso destra e, accanto ad un grande tronco di quercia che giaceva da anni adagiato sul terreno, notò l’Auriseth.
Esso, non appena si accorse di esser visto, scosse le sue enormi orecchie scrollandosi di dosso le ultime foglie di faggio. Il signor Losi restò di sasso. Di certo la piccola frazione di Tiramani di visitatori negli anni ne doveva aver veduti ma mai di così strani. “Sei tu che hai suonato la campana?” Chiese il Signor Losi superando lo stupore. Per tutta risposta l’Auriseth fece vibrare le sue grandi orecchie. Poi lanciò la sua particolare malìa che ingenera il desiderio di raccontare in coloro che incontra e dunque, il signor Losi, non fece altro che sedersi accanto a lui sul grande tronco aggiungendo: “Hai un buon intuito. Quella è una campana molto particolare. Si dice racchiuda in se svariati poteri. Ma visto che secondo me ci tieni e che sei di poche parole inizierò a raccontarti tutto dall’inizio. Hai grandi orecchie e dunque molto spazio per tante e tante informazioni. Perciò iniziamo. La mia famiglia ha origini lontane e la sua storia si intreccia con quella di questa frazione dove, i rami più antichi della famiglia Losi arrivarono dal basso lodigiano. Il motivo per cui decisero di stabilirsi a Tiramani proprio non si sa. Era un paese dove le finestre delle case, come per tanti i paesi di montagna, erano molto piccole a causa della così detta “tassa sulla luce”: una tassa di origine francese abolita soltanto nel 1816 con decreto di Maria Luigia d’Austria. Si vedeva nella possibilità di avere finestre grandi un indice di maggior ricchezza e quindi una tassazione più elevata. Un paese dove, contrariamente a molti altri luoghi, non c’era acqua facilmente accessibile; vale a dire che torrenti o canali erano completamente assenti. C’erano solo 30 pozzi artesiani che inevitabilmente avranno comportato dispendio di denaro ed energie per la loro costruzione. Dunque, perché insediarsi proprio a Tiramani?
Nonostante questo, i miei antenati decisero di stabilirvisi intorno al 1300. Infatti, l’oratorio dedicato a San Lorenzo, fu costruito proprio tra il 1330 e il 1400 da tre famiglie: Tiramani, Losi e Silva. Nel 1570 fu visitato per la prima volta dal Vescovo che vi arrivò a dorso di mulo. Nel 1600 la campana cadde a causa dell’incuria, rompendosi a metà. Così, nelle successive visite, il Vescovo prese a rampognare il parroco di Morfasso, Ottaviano Nicelli, ricco di famiglia, che, nel 1625, decise quindi di provvedere alla riparazione. Egli fece rinsaldare o rifondere la campana presso le stesse fonderie a cui si rivolse lo scultore Francesco Mochi per realizzare le statue equestri in Piazza Cavalli a Piacenza. Infatti, sulla campana, si trova ancora impressa la scritta “Octavianus Nicellus Morfassi reficiendam curavit”. Purtroppo, pochi anni dopo, nel 1628, contrasse la peste – la famosa peste di manzoniana memoria – e si rifugiò a Bettola presso la sua famiglia, pensando di cavarsela, ma, invece, perse la vita. Si diceva che la campana avesse veri e propri poteri taumaturgici; infatti, dapprima veniva suonata semplicemente per avvertire che era in arrivo una tempesta di grandine, nel tempo, però, si iniziò a pensare che fosse il suono della campana stessa a proteggere dalle tempeste. Allora, quando il cielo diventava plumbeo, ancora ai tempi in cui ero bambino, si diceva: “Vai a chiamare Dante, il campanaro, e digli di suonare la campana”. Perciò, in tutti i paesi limitrofi dicevano: “A Tiramani hanno una campana buona”, cioè, efficace nel tenere lontano le grandinate. A onor del vero, in paese non tempestò mai e il frumento venne sempre salvato.
San Lorenzo era una figura molto sentita in paese e, dunque, fu inevitabile che molti vennero chiamati con il nome Lorenzo. Così fu anche per un mio antenato, la cui storia si è tramandata di generazione in generazione: Lorenzo Losi. Era un ragazzone forte e robusto che nel 1860 partì a piedi verso Parigi. Essendo montanaro era molto abile a lavorare la legna, si impiegò dunque nella realizzazione delle traversine di una delle prime ferrovie: la Parigi – Fontainebleau. Lo stato aveva appaltato la costruzione della ferrovia ad imprenditori privati e uno di questi, forse proprio per la sua abilità nel realizzare le traversine, prese Lorenzo in simpatia. Ben presto, purtroppo, gli altri operai divennero invidiosi: non accettavano che un immigrato fosse più apprezzato di loro. L’invidia arrivò al punto che ne causarono la morte tra due convogli durante il collaudo dei binari. Un tragico racconto che ha sempre fatto parte della nostra mitologia famigliare.
La mia storia personale invece iniziò a Morfasso nel 1941, il mio anno di nascita. Iniziai le scuole elementari nel 1946 quando, nella scuola di Levei, piccola frazione a poche centinaia di metri dalla mia, c’era ancora tutta la modulistica del regime fascista: registri, circolari e documenti vari. In inverno portavamo la legna sotto braccio per poterci riscaldare durante la lezione. Ricordo che, quando nevicava molto, mio padre ci precedeva per farci strada nella neve. All’epoca gli stivali di gomma non erano ancora diffusi e dunque mio padre si proteggeva le gambe con le fasce mollettiere utilizzate dai militari durante la guerra del 1915/18. Erano considerate un bene prezioso perché erano impermeabili come la tela cerata e tutti le conservavano gelosamente, più del cappello d’alpino.
La mia famiglia ha una tradizione antifascista e questa tradizione arriva da lontano; è iniziata nel 1924 grazie ad un gesto di cui fu protagonista mia nonna paterna Benedetta Fulgoni, moglie di Emilio Losi. In quell’anno, a Morfasso, era attiva una delle prime sezioni fasciste comandate da un capo grande e grosso, con stivaloni e camicia nera. Mio padre aveva sedici anni e, come tutte le domeniche, si recò a messa. Il destino volle che incontrò proprio quel federale, il quale, sprezzante, gli disse: “Giovanni sei in ritardo! Non hai ancora fatto la tessera da avanguardista!” e mio padre gli rispose: “Io di tessere non ne faccio!”. Bastò quella frase perché il fascista sferrasse un ceffone talmente forte sulla nuca di mio padre che lo fece cadere con il viso sulla ghiaia, graffiandolo completamente. Quando tornò a casa ovviamente mia nonna gli chiese cosa fosse accaduto, ma mio padre per vergogna non volle raccontarglielo. Mia nonna insistette come sanno fare tutte le madri e riuscì a farsi riportare il fatto. Ebbene, l’ultima settimana di agosto, come da tradizione, sul monte Santa Franca, anche quell’anno ci fu la processione per la commemorazione della Santa protettrice della valle: si trattava di un evento con una grandissima partecipazione popolare. Erano presenti le prime formazioni fasciste che facevano ordine mettendo le persone in fila e controllando lo svolgersi della funzione. Mia nonna, da un momento all’altro, raggiunse l’inizio della processione, proprio dove si trovava il capo-sezione, lo prese per la collottola di fronte a tutti e gli disse: “Se tu tocchi ancora mio figlio finisci male”. Si fece silenzio, nessuno reagì e da quel giorno, si può dire, che la mia famiglia divenne antifascista.
Quello fu solo il primo di una lunga serie di episodi in cui mia nonna con le sue azioni si schierò contro il regime. Il 4 dicembre 1944 un gruppo di partigiani salì con i camion per portare rinforzi a Bettola, ma quando giunsero a Guselli, trovarono ad aspettarli le truppe mongole, così erano chiamati i soldati della Divisione nazista ‘Turkestan’, appostate ovunque: nelle case, nelle cantine, nei pollai. Le truppe mongole li colsero di sorpresa sparando con il farfallone Hitler, un particolare fucile mitragliatore, e con le mitraglie, uccidendone 32 sul posto. Si trattò di uno degli eccidi più tragici della Resistenza Piacentina. I corpi senza vita rimasero nella neve per giorni. Non si sapeva come recuperarli poiché tutti gli uomini erano scappati nei boschi o nei rifugi per sfuggire ai rastrellamenti ed allora mia nonna e un anziano signore di Guselli si rimboccarono le maniche e andarono a prendere i resti di quei poveri partigiani, li caricarono sulle slitte e, in diversi viaggi, li portarono al cimitero di Morfasso, con tutti i rischi che questo comportava. Inoltre, Giuseppe Prati, il comandante della divisione partigiana val d’Arda, ingaggiava mia nonna per eseguire i trasporti d’armi con un carro trainato da buoi. Gli spostamenti avvenivano di notte, al buio pesto, senza lanterne o torce. Io ancora oggi mi domando, in quel buio, come facesse a trovare la strada.
Questo fa capire come durante la guerra anche le donne si esponessero a grandi rischi, soprattutto quando portavano il cibo o le armi alle truppe partigiane. Si vestivano da vecchie e si sporcavano il viso per imbruttirsi e non correre il rischio di essere violentate dai mongoli. Quando quelle truppe irrompevano nelle loro case venivano deprivate di uova, galline, burro e di tutto quello che avevano. Non potevano reagire per non subire violenza.
Chiaramente la guerra portò con sé anche un’enorme povertà. In particolare mi ricordo che, dal primo dopoguerra sino al 1951 circa, vedevamo provenire da Pontremoli un ragazzino accompagnato dallo zio. Veniva in paese a cercare farina in cambio di lavori di impagliatura. “È arrivato il poverello di Pontremoli?” dicevano in paese. Mia madre, come altre donne, apriva la madia e metteva la farina bianca nel suo sacco. Una volta addirittura arrivò in compagnia di un cugino che sapeva riparare i tetti con le ‘ciappe’, le lastre in pietra con cui si ricoprivano i tetti, e chiedeva in cambio un po’ di cereali. Questo perché nei paesi intorno a Pontremoli avevano solo castagneti per potersi sostentare e allora si spingevano nelle frazioni dell’alta valle d’Arda poiché queste avevano maggiori possibilità di approvvigionamento di frumento e farina.
Poi, negli anni ‘50 fino al 1965, con il boom economico, iniziò lo spopolamento della montagna. Quasi tutte le famiglie ebbero un emigrante, altre si trasferirono in pianura, i figli studiarono e trovarono lavoro in città e il lavoro in montagna iniziò a non rendere più. Negli stessi anni riprese vita l’emigrazione verso l’estero. Dalla zona di Tiramani, Levei e Guselli emigrarono principalmente a Londra ed anche in Canada. Si può dire che nel tempo coloro che emigrarono, grazie all’impegno nel lavoro e ad un certo successo economico che ne conseguì, costituirono delle vere e proprie lobbies di potere tanto che nel 1970, borgotaresi, bardigiani e piacentini potevano contare sulla conoscenza e sulla frequentazione stretta di una trentina di deputati e cenavano col direttore generale dell’Hilton. Tutto un mondo che adesso è finito, ovviamente.
Sul finire di quegli anni iniziò anche la mia avventura professionale. Avevo 23 anni, ero ancora studente di Giurisprudenza a Genova, quando nel 1964, a Morfasso, si svolsero le elezioni comunali. C’era ancora un posto da consigliere e mi coinvolsero, anche se allora i giovani non erano stimati o considerati con capacità amministrative. A distanza di sei mesi dal mio ingresso in consiglio comunale, morì, a soli 44 anni, il sindaco Giovanni Basini, anche lui partigiano. Dunque gli assessori delle varie fazioni presero a litigare tra loro per scegliere il successore. Così un giorno mi telefonò a Genova un assessore in carica e mi disse: “Vorrei venirti a trovare perché ho delle cose da dirti”, insomma, quando lo vidi mi propose di diventare sindaco e aggiunse con tono risoluto: “non dire di no, eh?” e, così, tra i consiglieri si iniziò a dire: “Abbiamo deciso di fare sindaco il ragazzo”. Dunque, divenni sindaco a soli 24 anni. All’epoca poteva considerarsi una cosa fuori dal mondo. Ricoprii la carica sino al 1975 e nel frattempo, nel 1971, fui tra i fondatori della prima Comunità Montana formata dai sedici comuni dell’appennino piacentino, un ente territoriale volto alla tutela ed alla valorizzazione dei territori montani, di cui rivestii la carica di presidente e di cui, poi, divenne ‘vice’ il giovane Pier Luigi Bersani, più volte ministro e segretario del Partito Democratico. Nel 2009 con tanti appassionati testimoni ed eredi della Resistenza delle nostre valli, abbiamo fondato il “Museo della Resistenza Piacentina”, con sede a Sperongia, altra frazione di Morfasso, di cui rivesto tuttora la carica di presidente.
Oggi, guardandomi indietro, se penso alla storia di Tiramani, a quella di Morfasso e della valle in generale, una cosa mi ha colpito più di tutte: quando ci fu il referendum che aveva l’obiettivo di scegliere tra monarchia o repubblica, pur con ben 300 morti partigiani, a Morfasso, al referendum scelsero la monarchia. Inizialmente non riuscii a spiegarmelo, ma poi capii che questo fatto rifletteva una paura tipica italiana: la paura dell’ignoto e della confusione. Il prete, all’epoca, suggeriva di votare monarchia perché, diceva: “altrimenti l’è una repubblica”, cioè “una confusione”! Dunque la gente, nonostante ci fosse stato quasi un morto per famiglia, votò monarchia. Bisogna anche ricordare che il referendum avvenne molto a ridosso della guerra e, quindi, non ci fu il tempo perché maturasse una vera coscienza civile.
Invece, se penso a mia nonna, e a quel suo gesto istintivamente antifascista, capisco che esso testimoniava una montagna che aveva coscienza di sé, anche se non ancora in senso civico, almeno in quella prima fase. Questa coscienza era più che altro il frutto di un’autonomia alimentare ed economica basata sull’auto-sostentamento. Tutti avevano galline, uova, una mucca per il latte, un maiale per i salami. Era un mondo stabile che non aveva bisogno di nulla, men che meno dei fascisti: “non venirmi a chiedere: la tessera, mica la tessera…”, e: “se dai uno schiaffo a mio figlio, fascista o non fascista, io ti prendo per la collottola e ti dico che se lo tocchi ancora finisci male”. Partendo anche da questi presupposti si sviluppò progressivamente anche la coscienza civile montana.
Bene, penso di averti raccontato abbastanza e ora che vuoi fare? non avrai forse intenzione di dare un altro colpo alla campana?”. Disse con ironia il signor Andrea Losi. L’Auriseth restò immobile a pensare. Certamente ne era valsa la pena d’esser sceso dal monte Santa Franca in un turbine di foglie. Fece dunque un movimento d’orecchie ampio e lentissimo con il quale lasciò che tutte le storie udite scivolassero nel fondo dei suoi condotti auricolari; in quella dimensione segreta, sconosciuta agli uomini ma a quanto pare ben conosciuta dai folletti, dove tutto il passato si ricompone colmando le dimenticanze e le lacune del tempo che corre sempre troppo veloce.
Pochi istanti e di nuovo arrivarono altre foglie di faggio che, avvolgendo il folletto nello stesso vortice in cui era arrivato, in un attimo lo fecero sparire. Un nuovo “Din, don” echeggiò per tutta la frazione di Tiramani. Il signor Losi sorrise. Comprese che quello voleva essere un modo amichevole per ringraziarlo di tutte le storie che egli gli aveva raccontato e rimase dunque ad udire l’eco di quel rintocco rimbalzare sui muri delle vecchie case. Con lo sguardo abbracciò i tetti, i comignoli, le recinzioni della piccola frazione a cui era così legato. Fece un lungo sospiro e felice di aver donato molti dei suoi ricordi, sicuro di avere da qualche parte, tra le faggete del monte Santa Franca, un nuovo e strano amico, prese la via di casa.