Con l’avvicinarsi di novembre poche speranze restano ancora di poter godere di un caldo sole quasi primaverile e uomini e donne si rassegnano presto all’inevitabile sopraggiungere delle prime nebbie e del freddo che precede la stagione invernale. Gli esseri umani, per l’appunto, ma non i folletti. L’Auriseth, infatti, il folletto dalle grandi orecchie e dal volto rugoso e sorridente che adora ascoltare le storie degli uomini, già da qualche giorno aveva intuito che stava per arrivare quella che viene comunemente detta: “Estate di San Martino”. Si tratta, così come riportato dalla cultura popolare, di qualche giorno di sole in corrispondenza della prima decade di novembre che sembra riportare la calda primavera. “L’estate di San Martino dura tre giorni e un pochino”, pensò il folletto quella mattina ricordando uno dei più famosi detti e, dunque, dopo essere apparso tra i boschi che lambiscono il torrente Perino, sull’Appennino Piacentino, accompagnato dal solito mulinello di vento dispettoso, si lanciò letteralmente nello spericolato corso del torrente sfruttando le sue cascate e le sue pozze profonde. Poi approfittò del prato in cima al Monte Osero per potersi asciugare con calma ed infine sentì il desiderio di scendere verso il Nure e di raggiungere un quartiere di Bettola chiamato “Roncovero”. Spinto da una corrente di vento impetuoso raggiunse dunque il quartiere e, là, fu attratto da una casa decisamente diversa dalle altre. Sentì che tra quelle mura c’erano storie da ascoltare. La villa era circondata da un’ampia zona ricca di alberi quasi a riprodurre un vero e proprio bosco, luogo perfetto perché un folletto possa nascondersi. Inoltre era strutturata su quattro piani ed aveva delle ampie porte finestra che si aprivano da un lato sul declivio che scende verso il Nure e dall’altro sul bosco retrostante.
Quale miglior divertimento per un folletto trasportato dal vento poter passare da una grande finestra all’altra per poi riposarsi tra i rami di un grande albero. L’Auriseth, dunque, approfittò del fatto che la signora Carla Stabielli avesse aperto tutte le grandi finestre di casa in virtù dell’estate di San Martino e, accompagnato dal consueto mulinello di vento, attraversò la villa in tutta la sua lunghezza generando non poco scompiglio. Dapprima si trattò solo di una brezza leggera che scompaginò i capelli rossi di Carla ma poi diventò una vera propria raffica di vento che fece sbattere porte e finestre tanto che la signora dovette andare a chiuderle tutte con gran fretta e con una certa preoccupazione. Sappiamo, tuttavia, che l’obiettivo dell’Auriseth non è quello di far dispetti ma bensì di ascoltare le storie altrui. Dunque quello scompiglio aveva un unico scopo: incontrare Carla e sentirla evocare i suoi ricordi. “Chi è entrato in casa?” domandò la signora dalla figura slanciata vedendo spuntare due grandi orecchie da dietro la poltrona. Allora il folletto si manifestò lasciando Carla di stucco. “Orecchie grandi, volto rugoso, peluria qua e là sul mento e sul resto del viso, di occhi non ce ne sono, l’espressione è un pò orientale. Si direbbe che tu sia qualcosa di simile ad un personaggio teatrale. Se è così sei capitato nel posto giusto”, disse Carla per nulla intimorita. Dunque l’Auriseth fece vibrare le sue enormi orecchie e Carla venne cullata da quella sensazione tra il sonno e lo stupore che accompagna i ricordi. Si sedette dunque sulla poltrona accanto al folletto e iniziò a raccontare:
“Si può dire che io sia nata praticamente sotto i bombardamenti. Nel 1941 abitavamo a Piacenza in piazza Duomo all’angolo con via XX settembre. Avevo pochi mesi quando suonò l’allarme che avvertiva di imminenti bombardamenti. Tutti corsero presso i rifugi ma, mio padre Giulio e mia madre Ada, non fecero in tempo ad allontanarsi e quindi restammo dentro casa. Nel momento in cui mio padre disse: “Apro le finestre perché se arriva un bombardamento perlomeno non si rompono tutti i vetri” la casa fu bombardata. Fu una delle prime a Piacenza. Quasi tutto l’edificio crollò. Ci ritrovammo sul pianerottolo delle scale, l’unico elemento della casa che rimase in piedi. Dunque i miei genitori scesero le scale tenendomi in braccio, poiattraversammo le macerie dell’edificio e purtroppo vedemmo i corpi dei nostri vicini di casa giacere senza vita. Stessa sorte toccò a coloro che avevano riparato nel rifugio: tutti morti a causa del bombardamento. Inoltre, sopra il rifugio, c’era una serie di portici sotto i quali si trovava una drogheria molto conosciuta in città. Nelle cantine di questa drogheria c’erano le damigiane con tutti i prodotti: spezie e preparati medicali. Dunque coloro che durante il bombardamento si trovarono intrappolati in queste cantine persero la vita asfissiati dalle esalazioni. Ovviamente tutto questo mi è stato raccontato dai miei genitori poiché io ero troppo piccola per averne memoria.
Gli unici ricordi che ho della guerra si riferiscono a quando, d’estate, intorno al 1946/47, venivo a Bettola a trovare mia zia Elsa che aveva sposato un bettolese ed aveva i figli che su per giù erano miei coetanei: Alberto, Francesca, Paola e Stefano. Con loro passavo le mie estati bettolesi a giocare. Dunque mi ricordo vagamente i tedeschi che, in quegli anni, scappavano passando per la valle e tutti avevano molta paura. Poi, terminata la guerra, con il boom economico, ricordo i viaggi da Piacenza a Bettola in littorina. Erano un vero spasso. Caricavamo le biciclette sulla littorina di modo che poi potessimo divertirci avventurandoci su per delle salite tanto ripide che a fine giornata avevamo le ginocchia letteralmente distrutte. Raggiungevamo i paesini e le piccole frazioni percorrendo le strade sterrate e poi sostavamo per fare una merenda o una passeggiata. Non solo, un modo per passare il tempo era anche quello di fare gli scherzi più disparati ai contadini. Spesso capitava che spostassimo loro la zappa da un posto all’altro del campo poi andavamo a nasconderci e ci divertivamo a sentirlo imprecare.
Una delle nostre passioni era anche andare di notte a rubare l’uva. Una sera ricordo che eravamo in un gruppo di 6 o 7 ragazzini. Uno di questi andò nel campo per poi passare l’uva agli altri sulla strada. Ad un certo punto sentimmo un vocione tuonare: “Cosa fate voi ragazzi?”. Arrivò un uomo grande e grosso che da tempo ci teneva sott’occhio poichè aveva intuito che una delle nostre passioni era rubare l’uva nei campi. Ebbene, prese per la collottola il ragazzo che era entrato nel campo e gliene disse quattro. Se non che, il caso volle, che il ragazzo fosse proprio il figlio dei proprietari e che il campo fosse dunque il suo. Quando il ragazzo glielo disse l’uomo restò di sasso. E noi acquattati a ridere poco lontano.
C’era anche un’altra cosa che facevamo e che ci divertiva molto. A quel tempo i farmacisti preparavano i medicinali in prima persona. Le farmacie erano piene zeppe di boccette con all’interno preparati artigianali. Ebbene, c’era una polvere di cui ora non ricordo il nome, che se l’avvicinavi alla fiamma del fuoco scoppiava letteralmente provocando un grande bagliore. Perciò noi facevamo dei mucchietti di questa particolare sostanza e poi le davamo fuoco generando così dei veri e propri scoppi che irrompevano nella notte. Più di una volta arrivarono addirittura i carabinieri a cavallo per controllare cosa stesse accadendo. Bisogna tener presente che allora a Bettola, soprattutto d’estate, c’era moltissima gente, in particolare giovani e ragazzi che venivano in villeggiatura con i genitori e che durante le serate estive formavano delle vere e proprie tribù. Dal momento che c’era ben poco per divertirsi dovevamo viaggiare con la fantasia e dunque ne combinavamo un pò di tutti i colori.
Nel tempo i miei cugini smisero di frequentare Bettola mentre io mi sentii da subito legata a questa terra e tutte le estati tornai trascorrendo anche dei lunghi periodi prima con i miei genitori e poi con mio marito Francesco Rossi, dato che anche lui aveva molte amicizie nei paraggi. Ricordo che amavamo molto esplorare il Nure e il torrente Perino alla ricerca di posti poco conosciuti e molto suggestivi che, posso dire, probabilmente conoscevamo solo noi. In particolare adoravamo risalire il torrente Perino portando con noi anche i nostri figli senza nemmeno utilizzare gli zaini. Risalivamo il corso del torrente senza passare dal sentiero laterale. In questo modo, pur facendo molta più fatica, ci si imbatteva in angoli di natura poco accessibili ma meravigliosi. Il Nure poi aveva angoli nascosti, oggi scomparsi, con delle anse molto ampie dove era possibile fare il bagno e dove addirittura giocavano a palla a nuoto.
Ora ti racconterò di una delle mie grandi passioni: organizzare. Quando passai cinque anni in collegio a Cremona non feci altro che mettere in piedi rappresentazioni teatrali, banchi di beneficienza, riunioni di ex allievi. Dove c’era qualcosa da organizzare io c’ero. Questo fu uno degli aspetti del mio carattere che mi permise di stringere amicizia con una persona veramente speciale: Giancarlo Maserati. Insegnava con mio marito all’Istituito Tecnico Industriale di Piacenza e dunque facemmo conoscenza. Giancarlo era appassionato di teatro. Lo praticava già da anni poiché aveva avuto contatti con il Piccolo teatro di Milano e con altre importanti realtà teatrali Italiane. Era un uomo colto, eclettico, ironico e determinato che fondò, nel 1970, una delle compagnie teatrali che segnarono di più la vita culturale piacentina: “La Canea”. Introdusse una drammaturgia teatrale ancora sconosciuta in un contesto provinciale come quello piacentino e si dedicò particolarmente ai giovani che all’epoca, forse più di ora, desideravano fare teatro come impegno culturale. Noi due entrammo subito in sintonia e, di fatto, siamo stati amici e collaboratori tutta la vita sino alla sua scomparsa avvenuta nel 2010. Basti pensare che abbiamo abitato sempre l’uno accanto all’altro. Quando capitava che la mia famiglia cambiasse casa, com’è, come non è, succedeva sempre che anche lui traslocasse e venisse ad abitare vicino a noi. Io mi occupavo dell’aspetto organizzativo della compagnia teatrale: tenevo il bilancio, coltivavo i contatti con le istituzioni e tante altre cose. Ho percorso insieme a lui e agli attori che hanno recitato all’interno della compagnia un viaggio durato oltre trent’anni condividendo gioie e delusioni: dai tanti spettacoli che hanno avuto riconoscimenti e successo alle difficoltà dovute ad una città che spesso non ha riconosciuto il nostro impegno e quello di Giancarlo e gli ha voltato le spalle. Basti pensare che nella seconda parte della sua attività non è mai stata fornita una degna sede alla compagnia di modo che potesse continuare il suo lavoro anche pedagogico nei confronti dei giovani. Di questo Giancarlo soffrì molto e ciò contribuì lentamente a fiaccare il suo entusiasmo degli inizi.
Un ricordo molto particolare che ho è quando un giorno, Giancarlo arrivò qui, proprio in questa casa. Si guardò attorno e mi disse: “E’ perfetta per realizzare uno spettacolo teatrale: le grandi finestre si aprono verso il declivio del prato dove possiamo accomodare il pubblico. I muri laterali sono delle quinte su misura…”. E così nel 1979 in questa casa realizzammo una versione della “Cantatrice Calva” di Ionesco. Recitavano alcuni attori storici della compagnia come: Michela Riboni, Romano Gromi, Carla Antonini. Fu una grande emozione vedere quella sera tutta la casa trasformata in un teatro. Un teatro improvvisato a Bettola sulle rive del Nure. Non è stato affatto male. Ecco perché, all’inizio, ti ho detto che un personaggio come te, in questa casa è qualcosa di ideale. Che dici vuoi restare?”.
Domandò Carla al suo nuovo e strano ospite. Per tutta risposta l’Auriseth, come di consueto, fece scivolare la tante storie ascoltate nei suoi condotti auricolari profondi e bui; sino a raggiungere quella misteriosa dimensione, sconosciuta agli esseri umani, dove i ricordi si prendono per mano per non abbandonarsi più. Dunque non era solo per il divertimento di scorrazzare da una grande finestra all’altra sospinto dal vento che il folletto aveva scelto proprio quella casa, ma perché essa nascondeva una storia molto particolare e perché la signora Carla aveva un gran bagaglio di vicende e di conoscenza della valle da lasciargli in dono.
Una nuova brezza tornò a scompigliare i capelli rosso vermiglio di Carla. Allora le intenzioni del folletto le furono chiare: “Ho capito, te ne devi andare. Lascia almeno che ti accompagni fuori casa sotto i grandi alberi. Lì ci scambieremo l’ultimo saluto e non sbatteranno troppe finestre al momento della tua dipartita”. Sorrisero entrambi e quindi raggiunsero il bosco fuori casa. Il sole dell’estate di San Martino ancora splendeva nel cielo di quel caldo pomeriggio. I due sostarono su un ampio tappeto di foglie cadute scambiandosi gli ultimi sorrisi. Poi un turbine di vento scese dai monti sollevando le foglie in un mulinello decisamente scenografico e in un batter d’occhio l’Auriseth sparì.
Carla, da buona amante del teatro, era abituata a questo genere di uscite di scena e non si lasciò suggestionare più di tanto. Tuttavia pensò che, da quel momento, nei giorni di sole inaspettati, se avesse lasciato aperte le finestre allo scorrere del vento, quel nuovo e curioso amico sarebbe forse tornato a fare quattro chiacchiere e ciò la fece sentire bene. Da qualche parte, sui monti bettolesi, l’Auriseth soddisfatto si godeva le storie ascoltate insieme all’ultimo sole e pensò che Carla, con le sue scorribande in valle e il suo amore per il teatro era proprio una persona speciale.
Belle storie …i ricordi devono essere custoditi in preziosi scrigni di parole ..grazie !!