Come l’acqua del torrente tortuosamente si aggroviglia in indicibili percorsi attorno ai massi ed ai sassi, così fa il flusso dell’esistenza umana che attorno agli eventi della vita cerca di dispiegarsi e spinge le storie degli uomini come l’acqua fa con semi, rametti e foglie. Lo sa bene l’Auriseth che, infatti, ama spesso sedersi ai bordi dei torrenti e ammirare lo scorrere dell’acqua. Questo gli ricorda, per l’appunto, l’imprevedibile dipanarsi delle storie degli uomini che egli ama così tanto ascoltare. Così, un pomeriggio di ottobre, se ne stava seduto sulle rive del torrente Nure in prossimità di Bettola. Lo aveva accompagnato sino a valle un vento più insistente del solito che poi aveva formato il consueto mulinello proprio in prossimità del grande ponte della cittadina, così il folletto era apparso di nuovo. Osservava lo scorrere dell’acqua appoggiato alla base di uno dei grandi piloni. Questa non era cosa consueta per lui, difatti, generalmente, se appariva, lo faceva con l’obiettivo di un incontro ben selezionato dalla sensibilità delle sue grandi orecchie e non perdeva molto tempo a cincischiare. Infatti, i suoi grandi padiglioni auricolari, com’è noto, sanno intercettare storie anche a distanze inimmaginabili e, queste storie, naturalmente, appartengono sempre ad esseri umani in carne ed ossa, non certo al gorgoglìo di un torrente di montagna. Non è nella sua natura nemmeno bighellonare vagando senza meta nei pascoli, nei boschi o nelle stalle, magari facendo qualche dispetto come abitualmente fanno altri esseri soprannaturali come il mazapégul o il magalasso. Dunque perché l’Auriseth si era manifestato? La risposta arrivò quando Il gorgoglio dell’acqua non impedì ad una voce di raggiungere le sue grandi orecchie. Era una voce un pò stentata ma squillante che parlava di case, famiglie, guerre e fughe repentine. Proveniva da una grande abitazione che si affaccia tutt’ora sul corso del torrente proprio nei pressi del ponte. Una casa di forma quadrangolare le cui pareti appaiono robuste e forti come è la scorza di chi ne ha passate tante. Allora, l’Auriseth, non si era per nulla sbagliato! Evidentemente qualcosa era nell’aria. Qualcuno stava per aprire la scatola dei ricordi e si preparava a raccontare. Il folletto con un rapido balzo fu subito accanto all’ingresso principale della grande casa segnato da una porta scura. Poi vide una panca giusto sotto una delle finestre principali. Mettendovisi comodo si accorse che da quel punto poteva distintamente sentire la voce che aveva precedentemente udito presso il fiume e dunque distese le sue grandi orecchie, le fece vibrare e spalancò i suoi condotti auricolari profondi e neri. Già, ma dall’altra parte della finestra chi parlava? Era il signor Adolfo Nani che da tanti anni ormai vive con la moglie in quell’abitazione. Un uomo canuto che conosce bene la valle e che sin da bambino si è visto catapultare nelle sue tortuose storie. L’Auriseth lanciò la sua malìa scuotendo le sue grandi orecchie e fu così che il signor Adolfo sentì un’irrefrenabile voglia di raccontare e fu così che iniziò:
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“Sono nato nel 1937 e quando la guerra è finita avevo 8 anni. Ero piccolo, certo, ma abbastanza grande perché certe cose mi segnassero. Allora non c’era tempo di pensare ai ragazzini in quella grande confusione e in quella lotta per sopravvivere. Noi bambini eravamo lì e vedevamo. Di certo posso dire che a partire da quello che successe in questa casa ne ho viste veramente tante. Per cominciare è una casa su tre piani: primo, secondo piano e mansarda . È stata realizzata nel 1910 da una famiglia di costruttori che si chiamava “Calzolari”. Tutto cominciò quando mio padre e mio nonno la comprarono pagando la somma corrispondente alla cassa di risparmio e stavano per completare il rogito per diventarne definitivamente proprietari. Nel frattempo vi si stabilirono. All’epoca ci vivevano: mio padre che era perito agrario, mia madre che era maestra, mio nonno che si chiamava Adolfo come me, di professione veterinario, mio zio Carlo che era medico e divenne partigiano arruolandosi nella brigata di Fausto Cossu, un ex carabiniere e partigiano che fondò la repubblica di Bobbio e liberò Piacenza nel 1945, e poi c’era mio nonno materno che era geometra ed una mia zia e una pro zia che erano maestre. Insomma era una casa piena di professionisti cosa che per l’epoca non era così frequente e dove entravano ben otto stipendi. Una casa di una famiglia unita che stava affrontando la vita. La pace purtroppo però in questa casa durò poco. I tedeschi nell’anno 1943/44 si guardarono guardarono attorno e probabilmente pensarono: “Quella casa è perfetta: è realizzata in cemento armato, si affaccia sulla stazione della littorina che collega Piacenza a Bettola, si affaccia sulla piazza cittadina, guarda il passo del Cerro, un’importante via di comunicazione”.
“Dunque alle 15.00 di un pomeriggio sono arrivati accompagnati dai carabinieri e ci hanno detto: “Alle 18.00 dovete essere tutti fuori. Questa casa la prendiamo noi”. Naturalmente quando parlo di tedeschi mi riferisco alla Wehrmacht, una forza armata meno dura delle SS, perché se ci fossero state loro probabilmente non ci avrebbero concesso nemmeno le tre ore per sgomberare e di noi non sarebbe sopravvissuto nessuno. Io ero bambino e vedevo quell’enorme trambusto e naturalmente vivevo tutto questo con grande apprensione. I miei genitori e i miei nonni andarono a chiamare degli agricoltori che con i carri li aiutarono a liberare la casa in poche ore. Decidemmo quindi di rifugiarci nella caserma di Bettola di proprietà della mia famiglia, anche se era stata danneggiata da un attacco partigiano circa un mese prima. Caricammo tutto il mobilio e gli effetti personali sui carri quando all’improvviso ci fu una sparatoria e scappammo tutti abbandonando i nostri beni. Restammo una notte nella caserma e, il giorno dopo, quando tornammo per recuperare tutte le cose caricate sui carri non trovammo più nulla. Tutto rubato dai tedeschi o dagli stessi abitanti, la verità non si saprà mai. Fatto sta che da famiglia benestante che eravamo ci ritrovammo senza più nulla, casa compresa, che non ci venne più restituita perché sfortunatamente non avevamo ancora completato il rogito e durante la guerra dal punto di vista burocratico era tutto molto confuso. Gli uomini di famiglia vennero mandati in guerra, mio zio medico raggiunse Cossu e si allontanò dalla famiglia per paura di rappresaglie, poi si stabilì a Pianello dove si sposò e continuò a fare il medico aiutando di nascosto i partigiani. La famiglia in un certo senso fu distrutta o perlomeno non fu mai più la stessa. Per tutti e soprattutto per mio padre fu una grande sofferenza. Passammo dunque tutto il periodo della guerra presso la caserma sino al 25 aprile giorno della liberazione. Quel giorno alle 7:00 del mattino due aeroplani anglo-americani bombardarono il ponte di Bettola ma non riuscirono ad abbatterlo, colpirono solo i marciapiedi esterni. Sarebbe bastato ancora un metro e lo avrebbero distrutto totalmente. Quindi, per la paura che bombardassero ancora, scappammo di nuovo abbandonando la caserma. Ci mettemmo in cammino lungo le mulattiere: genitori, figli, zii, zie e nipoti verso Rossoregio una frazione di Bettola distante circa due ore a piedi. Mia madre faceva la maestra e là avremmo potuto alloggiare presso la scuola. Di quando in quando facevamo delle soste per riposare. Se non che, in una di queste soste, una mia zia dimenticò la sua borsa con dentro le sue gioie e dunque poco dopo mio padre fu costretto a tornare indietro per recuperarla. Nel mentre però vedemmo arrivare una pattuglia tedesca di mongoli. Subito ci bloccarono con un secco “Alt!”. Ebbene i mongoli afferrarono mia madre, che all’epoca aveva circa 27-28 anni, e presero anche una sua sorella, maestra anche lei. Volevano portarle in una cascina per compiere quello che è facile intuire. Tutte cose che sono rimaste dentro i miei occhi di bambino. Non si può nemmeno immaginare cosa può voler dire vivere quei momenti. Per me è stato sconvolgente. Passarono minuti di paura finché, fortuna volle, per così dire, che poco distante da questa pattuglia ce ne fosse un’altra di tedeschi. Arrivarono e, quando capirono che cosa stava per accadere, fermarono i mongoli dicendo loro che “se avessero fatto una cosa del genere li avrebbero fucilati all’istante”. Del resto si può dire che i mongoli vivessero ancora con uno stile di vita tribale, non sapevano nemmeno andare in bicicletta, andavano a cavallo. Inoltre, essendo ex prigionieri dei tedeschi stavano ai loro ordini. Così mia madre e mia zia si salvarono. Ma ripeto, questo è accaduto perché si trattava della Wehrmacht, se si fosse trattato delle SS quel trattamento ce lo saremmo sognati.
Ebbene, la guerra finì, gli anni passarono, io diventai grande, presi il diploma di geometra intraprendendo poi la mia attività nella valle e, trent’anni dopo la perdita di questa casa, quando riuscii a mettere da parte la somma necessaria, senza dir nulla, l’acquistai di nuovo. Tuttavia, nel frattempo, molti miei parenti che avevano vissuto quell’esproprio erano mancanti, restava mio padre, ma io non gli avevo detto nulla delle mie intenzioni. Un giorno gli dissi: “Papà vai a prendere le chiavi della casa di “Calzolari” e lui mi rispose incredulo: “E cosa le vado a prendere a fare?” e io “Vai a prendere le chiavi della casa di Calzolari, perché io l’ho comperata senza dire niente a nessuno” e così è stato. Posso dire che in questo modo mio padre ebbe davvero una grande soddisfazione, anche se era un tipo che non mostrava molto le sue emozioni. Naturalmente è stata una grande soddisfazione anche per me, anche se la famiglia, così com’era allora, non c’era più. A volte, negli anni, mi sono divertito a raccontare ai miei figli che, forse, da qualche parte, in un caveau della Cassa di Risparmio ,c’è ancora la somma iniziale con cui i miei genitori e i miei nonni fecero il loro primo acquisto di questa abitazione e che non gli fu mai restituita. Quel bel gruzzolo sarà ancora là ad aspettare”.
Adolfo sospirò e terminò così il suo racconto. Proprio non riusciva a capire come mai gli fosse venuta così improvvisamente e di getto voglia di dare voce a tutte quelle vicende di vita. Era stato come esser catturato da un flusso di pensiero incontrollabile, una corrente sotterranea che dopo un tortuoso andirivieni era sgorgata nella sua mente ed aveva preso possesso della sua voce senza dargli la possibilità di pensare ad altro se non ai ricordi. Sappiamo bene cosa l’aveva spinto a quel particolare stato di irrealtà che favorisce l’emergere delle memorie. Era stato proprio l’Auriseth che, dopo aver ascoltato, se ne stava seduto sulla panca sotto alla grande finestra della casa di Adolfo. Con soddisfazione fece vibrare le sue grandi orecchie e lasciò che tutti quei ricordi scendessero nei suoi condotti auricolari raggiungendo quella particolare dimensione dove le memorie si incontrano, si intrecciano, si collegano costruendo un mondo risanato dove nulla viene più perso nell’oblio del tempo. Una volta terminata questa operazione il folletto discese verso il Nure e si mise di nuovo a sedere sotto il medesimo grande pilone. Osservò ancora l’acqua scorrere tra i sassi, lottare contro l’uno e contro l’altro masso, dal più aguzzo al più rotondo per guadagnarsi la sua strada, così come la vita degli uomini fa con gli eventi improvvisi. Dopodiché l’Auriseth sorrise e in una attimo, avvolto da un mulinello di vento sceso a valle per le rive del torrente, ancora una volta sparì.