Un pomeriggio d’estate una folata di vento scese dal monte Carevolo nell’Appennino emiliano e raggiunse i boschi e i prati sottostanti. Agosto era già inoltrato, il sole splendeva nel cielo terso e la brezza prese via via sempre più forza. Fece tremare le foglie degli alberi più alti e poi scese giù fino a sfiorare i fitti roveti. Fu allora che diventò un vero e proprio mulinello di vento dispettoso. Con un fischio acuto e prolungato scompaginò i rovi aggrovigliandoli tra loro sino a formare una massa densa e scura attraverso la quale si iniziò a distinguere i lineamenti di un volto. Di veri e propri occhi non c’era nemmeno l’ombra, ma al loro posto si vedevano solo due grandi rughe, si distinguevano poi una bocca sottile e, quel che più conta, delle grandissime orecchie. Queste erano così sviluppate da sembrare due grandi ali e i fori auricolari assomigliavano a due pozzi o a due pozzanghere profonde e nere che sembrava dessero accesso ad un’altra dimensione. Un mondo di voci indistinte, ricordi e racconti; brandelli di memorie rotolanti appartenute chissà a chi e chissà quando. Inoltre si poteva distinguere una folta peluria distribuita qua e là sul mento, sulla testa e sulle orecchie. Ma era un animale? Un essere fatato? O un essere umano?
Si trattava dell’Auriseth, un folletto. Come mai si fosse manifestato è difficile da sapere. Di lui, infatti si sa molto poco. L’unica cosa che si conosce con certezza è che all’Auriseth piace molto ascoltare non è un caso dunque che abbia orecchie così grandi. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo pare che sia stato avvisato da un’improvvisa folata di vento o da uno scricchiolìo sinistro che proveniva dalla cappa del camino, poi vedeva l’Auristeh semplicemente apparire e sedersi accanto a lui pronto ad ascoltare dopo aver dispiegato le sue grandi orecchie. Così è accaduto anche a Dina Bergamini. Quel pomeriggio, nella sua casa di Grondone frazione di Ferriere, è bastato un attimo. La folata di vento ha raggiunto la sua abitazione, ha percorso il corridoio di casa, e la porta del suo terrazzo ha sbattuto con un gran rumore ed ecco che lo strano essere è comparso vicino alla ringhiera del balcone, appoggiato all’angolo sinistro per la precisione. Sulle prime Dina è rimasta stranita, ma ad esser sinceri non si è spaventata per nulla. Sarà forse che chi ha sempre abitato la montagna è abituato ad incontri un pò strani. Infatti Dina lo ha osservato un pò e poi non ha fatto altro che dirgli: “Mi piaci”. Si può supporre che l’Auriseth avesse scelto di apparire proprio a lei perché con il suo passato di insegnante e il suo presente di scrittrice avesse molte storie in serbo per lui. “Hai l’aria di essere un personaggio antico ma allo stesso tempo aperto al mondo con queste tue grandi orecchie” proseguì Dina osservandolo e l’Auriseth le strappò un sorriso.
Per tutta risposta il folletto scosse i suoi grandi padiglioni auricolari emettendo con le labbra un suono sottile. Così Dina, senza chiedere altro, come se per una strana malìa avesse immediatamente capito il desiderio del suo visitatore, osservò il panorama della valle che si apriva davanti al suo terrazzo e con l’amorevole autorevolezza di una maestra di lungo corso iniziò a raccontare.
“Io a scuola tornerei anche adesso, sono nata maestra e non sarei stata capace di fare nient’altro. Solo la maestra. Sono nata nel 1932 a Grondone di Ferriere. Posso dire che ho amato la mia cultura di montagna ma non l’ho subita perché ho imparato a guardare oltre l’orizzonte di queste terre senza dimenticarle. Infatti i segni della mia cultura contadina sono rimasti dentro di me. Dico questo perché nella mia vita c’è anche la storia di mia madre, di mio padre e di mia nonna. Mia nonna era una donna eccezionale nata le 1877. Una nonna analfabeta che utilizzava i proverbi dialettali per risolvere problemi vari. Sono tante le esperienze vissute con mia nonna. Esperienze che mi hanno insegnato a guardare con fiducia anche le difficoltà. Fra i tanti eventi vissuti insieme uno in modo particolare mi ha insegnato il valore del coraggio. Erano i tempi in cui anche in montagna si viveva il dramma di una guerra portata dallo scontro tra i partigiani e i soldati che non si sapeva da dove arrivavano. Mia nonna apriva casa a tutti e, negli orari di pranzo e di cena preparava una zuppiera di minestra. Quella sera, all’imbrunire, erano arrivati sei partigiani e la nonna offrì a ciascuno un cucchiaio per servirsi alla grossa zuppiera. Mentre i partigiani mangiavano, dalla porta leggermente aperta spuntarono alcune canne di fucile. Mia nonna aprì di botto la porta e con le mani sui fianchi di donna robusta, ha invitato i soldati a servirsi con il cucchiaio alla stessa zuppiera. Hanno mangiato tutti senza scambiare una parola. Anche nel mio desiderio di diventare maestra mia nonna ha giocato un ruolo fondamentale. Quando ero bambina avevamo una cucina con i muri costruiti con i bastoni di nocciolo intrecciati e, siccome allora la maestra si qualificava se picchiava i bambini, io giocavo battendo il muro come se ci fossero gli alunni disubbidienti. Alla fine ho distrutto una parete. Mia mamma ovviamente mi sgridò e mia nonna le rispose: “lasciala stare che se farà la maestra difenderà anche noi”.
Sono stata anche pastorella. Portavo le mucche e le pecore al pascolo in un mondo che oggi non c’è più, ed il cui ricordo ancora mi insegna e mi sostiene. Partivamo in parecchi bambini dai 6 ai 10 anni. La montagna di una volta era una vera comunità perché si era tutti uguali nell’affrontare la povertà, che era di tutti, senza distinzioni. Alla mattina, molto presto, in paese si spandeva il suono di un corno: una grossa conchiglia che mio nonno aveva portato dall’America. Aprivano tutti gli ovili e convogliavano le pecore sulla piazzetta del paese. Poi a turno, se una famiglia aveva cinque pecore custodiva le pecore di tutto il paese per cinque giorni, se ne aveva solo due le custodiva per due giorni e così via. Tutto il paese era coinvolto. Noi bambini, come ricompensa per aver portato al pascolo mucche e pecore, ricevevamo una manciata di ciliegie il giorno di San Giovanni, una fetta d’anguria il giorno della festa di Solaro e un formaggino quando si chiudevano le stalle perché nevicava. Lo scambio del latte riuniva un gruppo di famiglie in una piccola cooperativa. Tutti avevano le mucche però nessuno aveva tante mucche da riuscire a produrre da solo una forma di formaggio sufficientemente grande. Allora si mettevano insieme tre o quattro famiglie ognuna con il suo numero di mucche e si scambiavano il latte, misurato con una scodella, che serviva anche da unità di misura. Chiaramente più mucche aveva una famiglia più scodelle di latte aveva da scambiare. Da qui poi nascevano i pettegolezzi delle donne quando andavano a lavare il bucato alla fontana. C’era l’egoista che rovesciava la scodella nel recipiente senza riempirla del tutto, mentre la generosa, quando riempiva la scodella, lasciava traboccare dall’orlo un bel pò di latte. E così si facevano tre tipi di formaggio: quello della primavera che profumava di genziane selvatiche perché le mucche erano al pascolo e mangiavano le genziane; il maggengo che era quello di maggio ed era fatto facendo bollire il latte ed era il formaggio da grattugiare. Poi quello autunnale quando l’erba si faceva più delicata ed era il formaggio da polenta perché così si fondeva più facilmente.
Anche hai tempi di mia nonna la stalla era il luogo d’incontro delle donne che lavoravano la lana delle pecore appena tosate. Anche la scuola era un centro di aggregazione. Naturalmente erano scuole molto diverse da quelle di adesso. Una sola insegnante con 100 alunni che provenivano da frazioni diverse. In una sola aula sopra una stalla con il pavimento fatto con le assi e fra un’asse e l’altra si potevano vedere le mucche. Così si stava al caldo. Poi, nel tempo, quando è arrivata la luce elettrica sono cambiati i luoghi d’incontro. Con l’arrivo della luce i luoghi d’incontro si sono differenziati per età. I giovani andavano in un posto, le mamme in un altro e così via. Era un incontro di categorie. Poi sono arrivate le osterie. A Grondone ce n’erano ben sei ed erano frequentate solo dagli uomini soprattutto la domenica fino alle quattro del pomeriggio quando d’inverno bisognava tornare a casa per foraggiare le mucche. Le osterie hanno avuto lo sviluppo più grande quando anche in montagna ha avuto inizio la costruzione delle strade carrozzabili.
Provenivo da quel mondo quando ad undici anni, per proseguire gli studi, sono entrata in collegio dalle suore. Venivo da un mondo essenzialmente povero mentre il collegio era frequentato da coetanee appartenenti alla classe borghese. Io sono andata in collegio calzando gli zoccoli con la suola di legno sulla quale mio padre aveva inchiodato una tomaia. Mia madre aveva cucito un grembiule nero usando la divisa fascista di mio zio. Mi vergognavo perché non volevo far vedere la mia miseria. Nei temi, per esempio, inventavo un sacco di storie per non far emergere la mia povertà. Per questo sui miei temi il giudizio era sempre espresso con il voto 4. Studiavo molto per raggiungere con il voto 8 il voto 6 sufficiente per essere promossa. Ogni volta che partivo per il collegio i miei genitori mi salutavano con una frase che non mi dimenticherò mai: “O sei promossa o vai a zappare”. Ed io avevo sempre questo problema nei temi. Il destino ha voluto che proprio in quell’anno arrivasse un professore da Brescia. Si mise a spiegare Leopardi, ma non con la solita cantilena, mettendoci invece passione e cuore nel raccontare il mondo del poeta. Ci assegnò un tema sul poeta e io ricordo che, seduta al mio banco, pensavo: “Dina, Leopardi era storto, era brutto, scriveva a Silvia e aveva tanti altri interessi e io dovrei vergognarmi della mia povertà?”. Allora ho scritto quel tema con il cuore, libera dal giudizio su me stessa. Ho lasciato che dal tema su Leopardi trasparisse qualcosa di me. Alla fine sul foglio del mio tema ho visto per la prima volta il numero 8 e da allora io non ho più avuto problemi a scrivere tanto che ad oggi ho scritto undici libri.
Una volta diplomata mi sono preparata con impegno per sostenere il concorso che assegnava il titolo di maestra di ruolo. Nel 1953 ho cominciato a insegnare di ruolo a Grondone. Avevo 33 bambini, adesso su tutto il territorio del comune di Ferriere, che è uno dei più grandi d’Italia, ci sono solo 20 bambini. La montagna ormai è diventata un roveto. Il montanaro ha creduto molto nella formazione dei figli ed è proprio questa la radice dello spopolamento. A noi allora non mancava niente, eravamo poveri ma appagati. Avevamo quattro punti di rifornimento preziosi che erano: la stalla, l’orto, i campi coltivati e il pollaio; quindi per il nutrimento non c’erano problemi. Quello che mancava erano i soldi. Tutti i montanari sapevano leggere e scrivere; compravano il giornale e scrivevano le cartoline ai militari. I figli arrivavano fino alla quinta e poi avrebbero dovuto frequentare le medie in città allora quasi tutti si fermavano. Alcuni andavano a studiare per diventare preti, perché li mettevano in seminario e non pagavano la retta. Poi nel 1962 è arrivata la scuola media che ha influito sulle scelte dei genitori alla fine della classe terza. I genitori vedevano il proprio figlio arrivare alla scuola media e si sentivano dire dai professori che aveva tutte le capacità per proseguire gli studi, ma loro non avevano i soldi. Allora decidevano di andarsene con la famiglia in pianura. Dal 1970 al 1990 sino al 2000 l’80% delle famiglie è partito per fare studiare i figli e quelli che non hanno fatto questa scelta ne hanno fatta una ancora più difficile: da Grondone i figli partivano la mattina alle 5.30 per prendere la corriera alle 6 e tornavano la sera a casa per tutto l’anno e questo succede ancora oggi. Le famiglie che emigravano verso la città si impiegavano come muratori perché all’epoca l’edilizia era nel pieno. Oppure andavano a fare i boscaioli in pianura stagionalmente. Non riuscivano ad avere lavori di ufficio perché non possedevano i titoli di studio. Al massimo si impiegavano come artigiani creando un artigianato molto vivo. Le ragazze invece partivano per la campagna delle mondine. Alcune invece andavano a fare le domestiche in città, anche se più che domestiche dovrei dire vere e proprie serve, comandate con il bastone. E questa idea di considerare il montanaro con la cultura dei vassalli, valvassori e valvassini non è ancora finita.
In tutti quegli anni si è sviluppata la mia avventura nell’insegnamento. Mio figlio è stato inevitabilmente anche mio alunno e un giorno mi disse che lui si annoiava a morte ad imparare tutte le regole di grammatica sull’articolo determinativo, indeterminativo, nome comune di cosa e tanto altro. Allora mi sono fermata a riflettere e mi sono data la risposta che in fondo mi annoiavo anch’io. Ricordo allora che in una libreria di Piacenza vidi in vetrina un libro del noto linguista Noam Chomskji. Era tutto in inglese. Lo feci tradurre spendendo un patrimonio e, insieme agli alunni di quarta e quinta abbiamo inventato una nuova forma per l’insegnamento della grammatica non più basata sulla spiegazione delle regole, ma sull’apprendimento tramite l’esperienza. Ha funzionato benissimo. Avevamo inventato un esercizio definito: “oggi ho imparato che…”. Gli alunni esprimevano i loro giudizi che io non correggevo subito. Dopo qualche giorno assegnavo un esercizio che evidenziava l’errore precedente. Conservo il ricordo di un’altra novità. Mi accorsi che gli alunni si annoiavano a scrivere la data sulla pagina del quaderno e allora presi spunto da una mia alunna che un giorno mi raccontò che suo papà timbrava il cartellino. Acquistai un datario che gli alunni usarono per apporre sulla pagina la data di ogni giorno. Questa possibilità trasformò un momento di noia in un grande divertimento che insegnava il trascorrere del tempo . Naturalmente potevo fare tutto questo perché ero in piccolo paese di montagna altrimenti mi avrebbero di certo tarpato le ali.
In America, nell’azienda Ibm, un giorno ci fu una grande riunione. Mio figlio, fisico e ricercatore, era presente. Il direttore concluse la riunione dicendo: “Mi raccomando comprate tutti il libro di Chomski” e allora mio figlio si è messo a ridere e il direttore gli ha chiesto: “Perchè ridi?” e mio figlio: “Perché in un paesino dell’Appennino italiano, dove adesso ci sono solo rovi e cinghiali di questo libro se ne parlava già nel 1973” e gli ha raccontato la sua esperienza scolastica. Insomma, i quaderni dei bambini della scuola di Grondone, sono “volati” in America a disposizione di questa commissione che studiava le nuove forme di comunicazione. Non avrei mai immaginato che le mie scelte didattiche avrebbero fatto tanta strada.
A vent’anni, quando ho ricevuto la comunicazione che avevo superato il concorso per entrare in ruolo, mia mamma, il mio papà e mio fratello erano in un campo poco lontano a mietere il grano. Io corsi là con la lettera in mano e urlai: “Sono maestra di ruolo!”. Mia mamma ci fece inginocchiare su un covone di paglia per recitare insieme un’Ave Maria e mi disse: “Adesso tocca a te fare del bene”. Ogni volta che rievoco questo ricordo sento il calore del suo bacio e del sudore che bagnava le mie guance.
Era proprio il mio sogno fare la maestra. Sono nata maestra e non sarei stata capace di fare nient’altro, solo la maestra, e a scuola ci tornerei anche adesso”.
Dina terminò di raccontare. I suoi occhi vivi e appassionati ancora brillavano di tutta la vita attraversata, dei ricordi, dei dolori, delle gioie, degli incontri, degli addii e delle speranze a venire. l’Auriseth piegò le sue grandi orecchie quasi come se volesse far scorrere nel profondo dei suoi fori auricolari tutte quelle parole come un prezioso balsamo benefico che non potesse andare sprecato: un distillato di memoria che andasse piano piano a ricomporre un equilibrio ormai perduto. I due si guardarono ancora un attimo quando un lontano abbaiare di cani ruppe il silenzio. Una nuova folata di vento scese da Pertuso o da Rompeggio, attraversò i campi appena tagliati e raggiunse Grondone, girò attorno alla vecchia scuola, sfiorò i muretti a secco ed i tigli del paese e spalancò di nuovo la porta del terrazzo. Dina si affrettò a chiuderla mentre l’aria le scompigliava la chioma. Quando si voltò l’Auriseth non c’era più. Forse era tornato tra i rovi silenziosi o su per la cappa del camino. Dina cercò e cercò ma di lui nessuna traccia. Il sole ormai giungeva al tramonto, la sera era alle porte. Nascosto in qualche angolo buio e silenzioso dei monti l’Auriseth aspettava l’occasione giusta per apparire ancora.
Auriseth è una creazione di Umberto Petranca e Matteo Gandini Sculpture